Rosanna è stata una delle prime pazienti che ho seguito come immunologo. Aveva la più grave forma di artrite reumatoide che abbia mai riscontrato. Con estrema facilità, l’espressione della sua malattia determinava danni anatomici nei più diversi distretti articolari. Era un po’ bionica, perché costretta più volte da questo tratto del suo disturbo a ricorrere a impianti protesici. Il primo, poco dopo l’esordio dei sintomi, era stato un fissaggio del dente dell’epistrofeo, lesionato dal “panno” infiammatorio. In seguito si era trattato di protesi d’anca e di ginocchio, e di stecche in titanio per stabilizzare la colonna lombare. L’ho seguita per sedici anni, assistendo a un sovrapporsi di fastidi sempre nuovi, che complicavano una condizione di base fatta di una routine di dolori e di pochi periodi di tregua. Fin da quando l’ho conosciuta – e avevo una relativa esperienza professionale – mi son chiesto dove trovasse la forza per sopportare tutto questo. La vicenda personale non era stata, comprensibilmente, ideale. Sposata e separata senza prole, aveva il sostegno della famiglia e le modeste provvidenze economiche spettantile per legge. Ma ogni volta che l’incontravo, non potevo non restare colpito dalla determinazione, serena e senza incertezze, con cui mostrava di voler risolvere il problema contingente. Una forza d’animo che non ho mai forse osservato in nessun altro malato. Assisterla era facile, perché la sua risolutezza era di grande aiuto nel discutere e mettere in atto le scelte terapeutiche. Collaborava sempre, e questo semplificava tutto. Sapeva descrivere i suoi disagi con estrema lucidità, senza far pesare il carico emotivo che potevano implicare, come tutti i medici auspicherebbero per ogni paziente. Accettava la malattia senza recriminare, cercava le possibili soluzioni senza un attimo lamentarsi del suo soffrire. Penso che, pur con tutte le difficoltà con cui doveva fare i conti, avrebbe potuto combattere in eterno, senza cedere di un millimetro. Si è arresa di colpo, sfiancata dal cinismo dei burocrati. L’indifferenza abituale delle istituzioni verso le persone era una cosa che aveva sempre potuto sopportare, prendendolo come un risvolto normale del disagio di chi è malato. Era stata in grado di combattere le sue battaglie, e farsi valere. Ma quando le banche – nella fattispecie in persona dell’INPS – la presero in giro per un anno, negandole coi pretesti più vili gli indennizi cui aveva sacrosanto diritto, e impedendole così di acquistare i farmaci in cui aveva fiducia (e che l’assicurazione pubblica non le aveva concesso), il sentimento dell’ingiustizia subita generò una crepa nella sua pur straordinaria volontà. Agli effetti del fiaccamento morale si unirono quelli di un anno di trattamento farmacologico di ripiego, e di qualche improvvido intervento dei medici. L’ultima volta che la sentii al telefono, ricoverata in ospedale, la sua voce, prima ancora delle parole, esprimeva tutta la rabbia e la delusione che poteva provare, e suggeriva il senso di una resa incondizionata. Morì due giorni dopo. Aveva 56 anni. Come non bastasse tutto questo, i familiari dovettero sopportare l’ulteriore angheria della banca, che trovò i pretesti legali per non corrispondergli il risarcimento assicurativo di un contratto che la paziente aveva tempo prima stipulato. Dopo quasi dieci anni il ricordo di Rosanna è ancora ben vivo nella mia mente, per l’esempio unico di solidità morale che ha saputo offrire a chi l’ha conosciuta, per una lezione di vita che ha pochi riscontri.
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